Quando nel 1857 Charles Baudelaire scrisse “Les Fleurs du Mal” voleva scuotere le coscienze, creò lo scandalo raccontando storie di estrema sofferenza e bassezza, dove i piaceri della carne facevano da sfondo a temi come la morte e l’amore ed estremizzati fino al punto dove la perversione si trasforma in orrore.
I fiori del male, ieri come oggi, la solitudine dell’individuo che si riversa su “paradisi artificiali”, in amori proibiti, effimeri piaceri che creano la vana illusione di un momentaneo conforto. Tematiche attualissime, basta aprire un semplice giornale per comprendere come l’uomo sia sempre più alla deriva, governato da forze che lui stesso ignora, grazie anche ad un’identità che si fa sempre più incerta e instabile. In una società che vuole miliardi d’individui “tutti uguali”, ci si muove nel mondo senza sapere chi sei e dove vai, una sofferenza enorme da portare sulle spalle. Ed ecco che si tenta di reagire all’appiattimento “di massa” attraverso l’esaltazione ed “esagerazione” di corpi umani che si prestano a diventare cavie di ogni tipo di follia. Dal sesso estremo, dove la violenza derivante da rapporti malati, diviene un nuovo modo di concepire “l’amore”; alla chirurgia plastica estrema, dove seni enormi, labbra a canotto e ogni altro tipo di follia vorrebbero riscrivere i nuovi canoni di bellezza in stile horror. E mentre fiumi di alcol e mix di droghe sedano le coscienze “I fiori del male” prendono possesso dell’essere umano.

Ed è nel 2012, che un gruppo coraggioso come i Therion pubblicarono la loro scommessa, dal titolo “Les Fleurs Du Mal”, ispirandosi appunto all’opera di Baudelaire, facendone una raccolta di cover di brani francesi risalenti agli anni ’60 e ’70 e riarrangiate in stile Therion.
Per la loro etichetta, la Nuclear Blast, puntare su un’opera così lontana e avulsa dalla discografia del gruppo, apparve qualcosa di troppo azzardato, così si tirarono indietro, ma il capitano Christofer Johnsson e la sua ciurma, con determinazione decisero di autoprodursi e di far salpare la nave “Le Fleurs Du Mal”.


Il risultato? Anzitutto va detto che di aria metal se ne respira poca, i brani originali sono stati totalmente rivoluzionati e la velocità della ritmica ha in parte stravolto l’essenza delle canzoni stesse, l’album però si presenta nel complesso ricco di passaggi originali e tecnicamente impegnativi. È stato un progetto sicuramente ambizioso, in cui le straordinarie musiche sinfoniche presenti, dove la voce della soprano Lori Lewis (senza nulla togliere alla collega Linnéa Vikström) interpreta con magistrale bravura i brani presenti nell’album, ne hanno fatto un platter convincente e decisamente originale, molto diverso dai precedenti lavori.

Ed ora passiamo al brano che ho deciso di sottoporre alla vostra attenzione, si tratta “Poupée De Cire, Poupée de Son” una canzone del 1965 scritta da Serge Gainsbourg e cantata da France Gall, che si aggiudicò la vittoria all’Eurovision Song Contest 1965, in rappresentanza per il Lussemburgo.

L’intera canzone è piena di doppi sensi, a partire dal titolo che tradotto sta per “bambola di cera, bambola di pezza” quasi a significare che la Gall stessa è appunto una bambola, controllata dal proprio burattinaio.
Il suo cuore è inciso nelle sue canzoni, che le permettono di vedere la vita attraverso degli occhiali rosa e luminosi. Le sue registrazioni sono come uno specchio, in cui chiunque può vederla; attraverso queste, poi, la sua voce è frammentata ovunque e contemporaneamente.
La cantante punta poi il dito, sui suoi ascoltatori che definisce anche loro ” bambole di pezza, che ridono, danzano nella musica, e si lasciano sedurre.”
Ma l’amore non è solo nelle canzoni, e la cantante si chiede quale canto sia adatto all’amore, sentimento a lei ignoto. Nei versi conclusivi, viene dato spazio ad un filo di speranza alla “bambola di cera, bambola di pezza” poiché un giorno, la “bambola” sarà in grado di vivere la realtà delle proprie canzoni, senza più aver paura.

Parole che lasciano pensare ai tanti, troppi artisti distrutti dal loro stesso successo. Artisti divenuti schiavi di una “maschera” con cui si presentavano ( e si presentano) al pubblico; artisti inseriti nel tritacarne delle grandi case discografiche e delle grandi agenzie, dove la persona scompare per far posto, come cantava la Gall a delle “bambole di pezza e di cera” in grado di fare soldi.
Rossella Tirimacco