La Musica, poiché è la rivelazione del senso eterno delle cose, e sopprime il nostro Io, e ci eleva alla contemplazione degli esseri e della vita nella loro nudità essenziale, la Musica annienta la sensazione dolorosa che proviamo alla vista delle catastrofi di cui è piena la vita.
Giuseppe Vannicola

Mettere in musica la Pietà di Michelangelo significa entrare intimamente a contatto con l’opera e il suo autore, ricercare e scoprire le note nel marmo e riprodurle attraverso gli strumenti, permettendo ai suoni di librarsi nell’aria. Solo un grande artista al pari del Buonarroti poteva riuscire in una simile impresa: Antonio Vivaldi.
Nel 1715 il Prete Rosso, compose contestualmente al Nisi Dominus, due motti introduttivi per mettere appunto in musica la Pietà, tra cui il “Filiae maestae Jerusalem RV 638”. Cantato durante la Settimana Santa (anche se siamo a Natale, credo che certe opere vadano ascoltate ad ogni stagione, o comunque quando se ne ha voglia), l’opera è una narrazione della tristezza e del dolore delle “donne di Gerusalemme” che piangono la sofferenza per la Passione di Cristo e della sua morte sulla croce. Il pezzo, anche se narra il dolore, non è affatto “strappalacrime” come potrebbe sembrare. Al contrario, la musica è composta, mesta… tanto che persino la sofferenza viene cantata con “accettazione”. La descrizione musicale di donne che piangono con dignitoso dolore, è un’immagine forte che pone l’ascoltatore quasi di fronte all’opera di Michelangelo che sembra animarsi con le note. In solenne silenzio, si diventa così “ascoltatori” ed “osservatori” davanti ad una scena che ci costringe ad abbassare la testa di fronte alla rappresentazione del dolore che l’essere umano è in grado di infliggere ai propri simili…
Rossella Tirimacco