Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo. Chi si sente solo vive un dramma puramente individuale; il sentimento dell’abbandono può sopraggiungere anche in una splendida cornice naturale. In tal caso interessa unicamente la propria inquietudine. Sentirti proiettato e sospeso in questo mondo, incapace di adattarti ad esso, consumato in te stesso, distrutto dalle tue deficienze o esaltazioni, tormentato dalle tue insufficienze, indifferente agli aspetti esteriori – luminosi o cupi che siano –, rimanendo nel tuo dramma interiore: ecco ciò che significa la solitudine individuale. Il sentimento di solitudine cosmica deriva invece non tanto da un tormento puramente soggettivo, quanto piuttosto dalla sensazione di abbandono di questo mondo, dal sentimento di un nulla esteriore. Come se il mondo avesse perduto di colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un cimitero. Sono in molti a sentirsi torturati dalla visione di un mondo derelitto, irrimediabilmente abbandonato ad una solitudine glaciale, che neppure i deboli riflessi di un chiarore crepuscolare riescono a raggiungere. Chi sono dunque i più infelici: coloro che sentono la solitudine in se stessi o coloro che la sentono all’esterno? Impossibile rispondere. E poi, perché dovrei darmi la pena di stabilire una gerarchia della solitudine? Essere solo non è già abbastanza?

Emil Cioran

Quello della solitudine è un dramma attualissimo e particolarmente sentito. Del resto, com’è possibile per degli esseri sociali, riuscire a sopravvivere in una società che tenta di distruggere le relazioni, creando separatività tra individui? Il senso di comunità, della famiglia, dell’amicizia e del reciproco aiuto, sono valori fondanti per una psiche sana che si proietta poi nella società, e nell’ambiente stesso. La realtà, purtroppo è ben diversa, e non ci vuole molto per capire come il disagio collettivo si riversi in quell’ambiente di cui l’uomo è l’unico creatore e responsabile.
Rinchiusi nei nostri “appartamenti” la cui etimologia della parola deriva appunto da “appartare” e quindi “separare”; oberati di quel lavoro (per chi è fortunato ad averlo) che permetta la nostra stessa sopravvivenza, i giorni che si susseguono ad un ritmo frenetico, la comunicazione con il mondo esterno diventa così filtrata dal mondo mediatico e i rapporti con gli altri si riducono al lumicino. Persino i piccoli negozi, meta di un tempo di scambi e chiacchiere con il negoziante, sono stati sostituiti dalle grandi catene e centri commerciali, dove a nessuno importa chi sei e cosa fai, ciò che conta e che le persone spendano e consumino. Dov’è dunque la comunità? Il palliativo di un’assenza di comunicazione, diventa così il salotto di Barbara D’Urso, di Bruno Vespa e della gran parte del sistema mediatico e che finiamo per confondere con quella che crediamo sia la realtà. Il social per molti, diventa così l’unico rifugio e l’ultimo baluardo dove poter sopravvivere all’assenza di “comunità” e di interazioni sociali.
Conseguenze di questo insano modo di vivere, è la profonda solitudine che finiamo con l’accettare come “normalità”, salvo poi ritrovarsi con problematiche di vario tipo e nevrosi che tanto ci allontanano dalla nostra “umanità”.
Tornare a ristabilire dei rapporti veri e onesti tra individui, è la sola strada che può portarci a crescere e ad evolvere. Sapere di poter contare su una comunità, sulla famiglia, su un gruppo di amici, è essenziale per poter costruire quel mondo che tanto auspichiamo e che desideriamo. Nessuna politica, nessun tipo di economia potrà mai risolvere e risanare le “casse” se non si riparte dall’essere umano e dalle relazioni. Senza comunità, non c’è evoluzione, e senza evoluzione c’è solo la morte.

Rossella Tirimacco