In un mondo dove con un click si ottengono svariate informazioni, in un mondo dove si diventa “esperti” attraverso Wikipedia, in un mondo dove spesso si crede di sapere tutto semplicemente guardando un documentario, in un mondo dove gli “opinionisti” in tv diventano esperti e tuttologi… in questo mondo esiste uno strano paradosso: è il paradosso dell’ignoranza.
Ignoranza deriva dal termine latino “ignorantia” e significa sostanzialmente che l’individuo non conosce una determinata materia e che è in tutto o in parte digiuno di un determinato complesso di nozioni. Nell’accezione popolare la parola “ignorante” ha però una connotazione dispregiativa e spesso offensiva, e non di rado la parola utilizzata per definire una persona non colta diventa l’equivalente di rozzo o maleducato.
Eppure, Socrate che di certo “ignorante” non era, attraverso il massimo fondamento del suo pensiero “so di non sapere”, dimostrava come in realtà l’ignoranza era intesa come consapevolezza del fatto che non esiste una verità definitiva e immutabile.
Se Socrate aveva ben realizzato di “non sapere” e la sua era quindi una “docta ignorantia”, al contrario esiste un’ignoranza dove “il più delle volte gli ignoranti non sanno di essere ignoranti”.
Ed è un paradosso che può colpire tutti, indistintamente, dal sesso, età, religione, origine ecc., ciò deriva da una distorsione cognitiva definita “effetto Dunning-Kruger” e sostanzialmente consiste in questo: le persone pochissimo esperte hanno una scarsa consapevolezza della loro incompetenza. Fanno errori su errori ma tendono comunque a credere di cavarsela. I più competenti invece tendono a sottovalutare le proprie competenze e credono che gli altri abbiano le loro stesse conoscenze, e sono quindi portati a pensare che gli altri agiscano in modo simile al proprio.
Il fenomeno venne descritto per la prima volta David Dunning, un professore di psicologia sociale alla Cornell Universitye e un suo laureando Justin Kruger . La ricerca nacque in modo del tutto casuale quando Dunning lesse una notizia sul World Almanac del 1996, sezione Offbeat News Stories.

L’articolo riportava la storia di Arthur Weeler, un uomo che rapinò nella stessa giornata due banche di Pittsburgh in pieno giorno e a volto scoperto. Per quanto la cosa possa sembrare assurda, l’uomo, un quarantacinquenne che di certo non passava inosservato, anche per via della sua stazza piuttosto evidente, senza alcun timore di essere riconosciuto, prima di uscire da ogni banca si voltava verso le telecamere di sorveglianza sorridendo. Ovviamente la polizia risalì in fretta a Weeler, così, quella stessa notte a sorpresa l’uomo venne arrestato. Quando gli mostrarono le riprese dei nastri delle telecamere di sorveglianza, Wheeler fissò incredulo. “Ma ho indossato il succo”, borbottò. Wheeler si era infatti ricoperto il volto di succo di limone, convinto che questo lo avrebbe reso invisibile di fronte alle telecamere. Dopotutto, il succo di limone viene usato come inchiostro invisibile, quindi, fintanto che non si avvicinava a una fonte di calore, avrebbe dovuto essere completamente invisibile. O almeno questo è ciò che egli credeva. L’uomo non aveva improvvisato, al contrario si era accuratamente preparato, alla polizia riferì che si era persino fatto un “selfie” con una polaroid per verificare che il sistema funzionasse.“Il succo di limone mi bruciava la faccia e gli occhi, facevo fatica a vedere”, aggiunse. E nella foto lui effettivamente non c’era – probabilmente l’acidità gli aveva impedito di vedere bene e quindi di fotografare davvero se stesso. Ma senza realizzare il macroscopico errore, McArthur pensò di aver ottenuto la prova che cercava e pertanto l’invisibilità gli avrebbe permesso di fare il colpo nelle banche e di passarla liscia.

Dunning nel leggere questa storia si pose diversi interrogativi, se Wheeler era troppo stupido per essere un rapinatore, forse era anche troppo stupido per sapere di essere troppo stupido per essere un rapinatore. “La sua stupidità gli nascondeva la sua stessa stupidità” pensò lo psicologo.
Dunning e Kruger decisero così di portare avanti un progetto di ricerca i cui risultati vennero poi pubblicati nel 1999 con il titolo “Unskilled and Unaware of It: How Difficulties of Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-assessments” e da allora è un piccolo classico degli studi sull’ignoranza di sé.
Ma di cosa si tratta esattamente?
I due psicologi diedero il via ad una serie di esperimenti nei quali coinvolsero gli studenti dei primi anni di psicologia della Cornell University, che vennero suddivisi in gruppi. Gli studenti vennero sottoposti ad una serie di test su grammatica, logica e umorismo a cui avrebbero dovuto dare un auto-feedback. I risultati mostrarono che gli studenti meno preparati mostravano una tendenza a dare un punteggio piuttosto elevato ai loro test, mentre gli studenti con un grado di preparazione più alto tendevano a sottostimare le loro reali capacità.
Tale “sovrastima” e “sottostima” va ben oltre le aule di una scuola e si estende nella vita di tutti i giorni, Dunning e Kreger testarono diverse situazioni della vita sociale e la conclusione fu la medesima “I peggiori si credono i migliori”. Ma dagli studi di Dunning emerge un dato speculare: anche i migliori sbagliano, in senso opposto. I più competenti tendono a sottovalutare le proprie competenze. Arrivano facilmente alle risposte giuste e credono che anche gli altri siano in grado di giungere con altrettanta facilità allo stesse conclusioni. Di conseguenza, quando si tratta di dare una valutazione su di sé, non si collocano nella fascia alta. È colpa dell’effetto del falso consenso (la tendenza a pensare che gli altri agiscano in modo simile al proprio), ed è coerente con gli studi sull’attribuzione della conoscenza, i quali mostrano che le persone sovrastimano la quantità di persone in possesso della loro stessa conoscenza.

Il fenomeno è anche conosciuto con il nome di “sindrome dell’impostore”. Chi soffre di questa sindrome – detta anche “impostorismo” – non direbbe mai esplicitamente “mi sento un impostore”, eppure si sente esattamente così. Anche nei casi in cui consegue successi e riconoscimenti, questa persona avverte che il suo successo è dovuto a qualche colpo di fortuna, a una misteriosa combinazione, oppure a un grande sforzo irripetibile; crede che i suoi risultati siano dovuti solo a un caso e non siano piuttosto il risultato delle sue abilità o delle sue competenze. (1*)
Che sia l’effetto Dunning-Kruger, che si tratti di sindrome dell’impostore, ciò che appare evidente è la nostra ignoranza sulle nostre reali capacità e conoscenze, possiamo cercare dentro di noi quanto vogliamo, ma non riusciremo mai ad avere delle risposte sul campo infinito della nostra ignoranza. In parte perché la nostra coscienza è autoreferenziale è il metro di giudizio è solo con noi stessi. Dovremmo chiedere agli altri e avere “lumi” sulla nostra ignoranza. E per ragioni di Ego, questa non è una strada facilmente percorribile. Solo colmando le nostre lacune e apprendendo nuove informazioni diventa possibile comprendere sia parte della nostra ignoranza, sia gli errori commessi a causa della stessa.

Antonio Sgobba, anni dopo riprende gli studi dei due psicologi statunitensi e nel suo saggio “Il paradosso dell’ignorante, da Socrate a Google” approfondisce la questione e mostra una visione differente all’ignoranza. Il giornalista non da ad essa nessuna connotazione positiva o negativa, poiché, se da un lato l’ignoranza conduce inevitabilmente all’errore, è altrettanto vero che questa può essere uno stimolo per ottenere nuove conoscenze, basti pensare alle grandi scoperte scientifiche nate da innumerevoli errori. L’ignoranza può quindi essere una spinta per imparare nuove cose e abilità. Del resto, se l’ignorante, grazie alla sua “alta autostima” si lancia in imprese a volte epocali, lo deve proprio al fatto che ne ignora i pericoli o le difficoltà. Ma questa sua peculiarità, gli permette altresì di sbagliare e quindi di apprendere nuove informazioni e, a volte gli permette anche di scoprire nuovi processi. L’ignoranza è utile anche per la convivenza sociale, per la giustificazione morale e, in ultima analisi, può anche non essere utile in nessun campo, rimanendo assolutamente innocua. Proprio per questa natura controversa, e in parte contraddittoria, nasce il paradosso dell’ignoranza. Tutti crediamo di sapere ma in realtà nessuno è consapevole del vuoto infinito della propria ignoranza.
Rossella Tirimacco
Bibliografia
1* Antonio Sgobba “Il paradosso dell’ignoranza da Socrate a Google”
Kate Fehlhaber ” When life gives you lemons”
Alice Tomaselli “Chi meno sa e più crede di sapere: Il paradosso dell’ignoranza e l’effetto Dunning-Kruger”